martedì 13 dicembre 2005

Citazioni di Architettura (I)

Stamani, mentre leggevo lo Zevi ( Storia dell'architettura Moderna vol.1; Biblioteca Einaudi ), mi sono imbattuto in questa (vedi in basso) citazione di W. Morris. Nulla di "assoluto" voglio dire. Chissà quanti hanno letto e riletto quella frase, magari dai contenuti pure banali per molti architetti o studenti di architettura. Ma il punto è che mi sono ritrovato a leggerla e rileggerla più volte. Quasi come se non riuscissi a capirla appieno. Come se avesse chissà quale segreto celato dietro quelle semplici parole.
Visto che mi ritengo un "neofita appassionato" di citazioni, ho dunque deciso che inserirne qualcuna ogni tanto non è una cattiva idea; e qui si giustifica anche "l'uno" che ho posto sul titolo. Certo non è il massimo dell'originalità, là fuori è stracolmo di siti e blog, che trattano di architettura, strapieni di citazioni. Ma come diceva sempre Morris "una cosa è veramente originale quando viene riconosciuta e assimilata diventando uno standard".
La citazione è questa:

"L'architettura abbraccia l'intero ambiente della vita, e rappresenta l'insieme delle trasformazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane"

                                                                                     William Morris

1 commento:

  1. L'architettura è per gli uomini. Il panorama dell'architettura contemporanea è caratterizzato da una grande diversificazione dei linguaggi sia, indubbiamente, perché molti e differenti sono i talenti progettuali sulla scena, sia perché oggi le scelte possibili sono pressoché innumerevoli e tutte realizzabili grazie allo sviluppo di tecnologie avanzate per le quali nessuna via è impercorribile, il che incoraggia lo sbizzarrirsi delle fantasie più audaci. L'attuale semplicità realizzativa, resa possibile dall'impiego di materiali molto sofisticati dominati da una tecnica sempre più perfezionata, impone all'architetto di operare scelte molto più precise e mirate di quanto facesse una volta, esercitando discernimento e potere decisionale all'interno di una miriade di opportunità di vastità angosciante nella quale la capacità di creare viene seconda al coraggio di scartare.
    A fronte di una possibile, marcata soggettivizzazione della progettazione, oggi l'autore è chiamato a rispondere della sua opera in prima persona assai più che in passato, quando, mi riferisco all'epoca pre-umanistica, difficilmente egli apponeva la propria firma come segno distintivo personale, complice il fatto che la durata dei tempi costruttivi era talmente lunga che spesso l'opera architettonica era figlia di più padri.
    L'ampiezza del ventaglio delle scelte possibili indotte dall'onnipotenza della tecnologia ha, come tutte le medaglie, il suo rovescio: da una parte permette di esprimersi a straordinari creativi che, solo qualche decennio fa sarebbero stati i tipici geni incompresi (e sconosciuti), dall'altra dà spazio e voce ad una schiera di originali solisti che coprono le loro stecche grazie all'abilità dell'orchestra.
    E' infatti reale il rischio che l'alta tecnologia possa diventare un alibi per una sorta di astensionismo morale ed è legittimo il dubbio che un po' di ebbrezza tecnologica sia alla base della guglia alta mezzo chilometro di Ground Zero o delle disinibite sperimentazioni progettuali del Guggenheim di Bilbao o della Disney Hall di L.A.

    Lo storico ed il critico d'architettura usano, oggi più che mai davanti a tendenze non catalogabili ed in genere rapportabili ad una realtà strettamente individuale, l'aggettivo 'espressionista', parlando di 'architettura espressionista', così come si parla di arte espressionista o letteratura espressionista, per indicare un prodotto fortemente marchiato dalla soggettività dell'autore, come ad esempio il decostruttivismo.
    Etimologicamente derivato dal latino ex-premere, spingere fuori, il termine espressionismo viene coniato dal critico francese Vauxcelles che lo adopera per definire la pittura di Matisse, fauve come Derain, de Vlamink, Van Dongen, e viene poi esteso ad esperienze in ambito tedesco, delle quali illustri prodromi sono costituiti dalla pittura di Edward Munch e Vincent van Gogh.
    'Espressionismo', termine creato in un inizio secolo particolarmente critico ed oppositivo nei confronti del passato, diviene nell'uso corrente sinonimo di antiaccademismo ed antitradizionalismo e definisce una vera e propria rivoluzione ideologica attuata dalle correnti avanguardiste del '900.
    Va tuttavia ricordato che esso identifica, prima di tutto, il momento storico di un passo obbligato per un'arte visiva che, di colpo, dopo secoli di più o meno indiscussa egemonia, si vede privata del proprio ruolo consolidato - la raffigurazione e la riproduzione di immagini reali - dalla giovane tecnica fotografica, alla quale pare più idoneo e più economico delegare il compito della rappresentazione documentale della realtà oggettiva, pur con tutte le riserve che questi due termini, documentale e oggettiva, comportano.
    Davanti a questo ribaltamento d'orizzonte, l'arte visiva affronta una crisi di identità senza precedenti e cerca nuove motivazioni che le conferiscano un ruolo, trovandole nella rappresentazione dell'inconscio, della realtà metafisica, dell'interiorità delle cose, ciò che la fotografia non può riprodurre e che l'obiettivo non 'vede' .
    Sarà l'arte capace di scavare nell'animo umano, di e-sprimere le emozioni, e-strarle e spingerle fuori, liberarle, riversarle sulla tela con l'irruenza di un fiume in piena, senza più preoccupazioni di naturalismo, mimesi, verosimiglianza, sarà l'Espressionismo.
    Con l'aiuto di Freud il '900 scopre poi che l'espressionismo è una categoria dello spirito, ed è perciò lecito ed inevitabile rintracciarlo e giustificarlo in ogni manifestazione dell'umano intelletto, anche nell'architettura e anche se essa non vive quel passaggio epocale con la stessa drammaticità dell'arte, poiché nulla e nessuno mette in dubbio il suo ruolo di strumento egemone per occupare ed abitare il territorio, di strumento sociale di necessità storica.

    Rifiutando quindi di trincerarsi entro una sterile autonomia disciplinare, l'architettura partecipa al movimento espressionista seppure con una certa confusione, alcune incertezze ed un costante rapporto conflittuale con l'altra, opposta faccia della cultura del '900 rappresentata dal costruttivismo e dal razionalismo.
    Un dualismo che, in definitiva, riguarda anche l'architettura di oggi, uscita non da molto dalle secche di un vituperato post-razionalismo esitato nel contestatissimo post-moderno che ne ha, secondo i più, in qualche modo frenato l'evoluzione, senza riuscirci, pare, se "la forza con cui si pone l'architettura contemporanea - penso a Libeskind, a Gerhy in particolare - e l'estrema drammaticità nella quale trova rappresentazione ci danno la certezza che la sensibilità per una visione organica dell'esperienza, del vivere espressivo, hanno ora vinto una battaglia secolare contro la disciplina della forma e quindi della sostanza, contro l'intransigenza della semplificazione e della coerenza storica." (Sandro Lazier, "L'artista non vede, guarda", Antithesi, 2002).

    Tuttavia vale la pena di rilevare che arte visiva e architettura si differenziano sensibilmente non nel merito ma nel metodo per ciò che concerne la loro fruizione: nonostante mai come oggi esse cerchino di ricomporsi osmoticamente sconfinando l'una nell'altra nel nome di una interdisciplinarità che pare essere la parola d'ordine della cultura moderna, resta il fatto che la fruizione della maggior parte delle opere d'arte o almeno, dando a Benjamin quel che è di Benjamin, del loro esemplare autentico, unico ed originale, impone un devoto pellegrinaggio in luoghi deputati ad ospitarle, ad Amsterdam piuttosto che a Oslo, a New York o a Parigi, nei quali, grazie al medium del museo o della galleria, instaurare un dialogo protetto personale e riservato tra l'opera ed il suo osservatore.
    Lì l'espressionismo davvero 'urla' ed apre allo spettatore lo specchio di un'interiorità sofferta nella quale ciascuno può, a suo modo, riflettere sé stesso.

    L'architettura no, l'architettura ti viene incontro e ti circonda senza chiederti il permesso e senza che tu debba andare a cercarla, pervade la tua vita, costruisce il presente e il passato della tua storia, il mondo in cui vivi e abiti, ed ogni volta che un architetto realizza un'opera invade lo spazio di tutti, il nostro spazio fisico e mentale, il nostro orizzonte, lo skyline delle nostre città, modifica il paesaggio, altera luci ed ombre, interviene sul microclima, devia percorsi …… ci cambia la vita, almeno un po', senza il nostro consenso e nostro malgrado: l'architettura, insomma, non può che riguardare tutti, dato che ogni opera, quand'anche a destinazione strettamente personale, concorre a creare o modificare un mondo di forme e di volumi in un contesto urbanistico-ambientale entro il quale tutta la comunità vive ed agisce.
    L'architettura 'serve', l'uomo non può vivere senza fare ed usare l'architettura, uno dei modi più antichi attraverso i quali egli plasma e trasforma la materia per asservirla ai propri scopi, cosicché la pervasività, l'invadenza, l'occupazione, la visibilità tracciano l'inevitabile destino di una disciplina che, districandosi tra tecnologia e contenuti, costruisce il mondo visibile in forme - o stili - continuamente mutanti in relazione al mutare delle funzioni, dei materiali, delle tecnologie, del contesto, della storia, della società, della cultura.


    Luigi Prestinenza Puglisi attribuisce a Bruno Zevi la definizione di arte come "l'espressione più alta della moralità. E la forma è il veicolo attraverso il quale la moralità -che è ricerca della libertà- si manifesta" ("Pensieri scomodi", 2001). Il che non impedisce allo stesso Zevi di somministrarci, lecorbusianamente, le sue sette invarianti che però, prosegue Puglisi, lungi dall'essere regole o precetti, sono "modelli comportamentali, strategie per la liberazione", senza mostrar di rilevare la contraddizione ossimorica dell'affermazione.

    E' scontato accettare il concetto di una morale dell'arte su basi puramente estetiche, una 'morale estetica' che comunque scaturisce da una riflessione sulla realtà non estranea all'utopia di poter cambiare il mondo, ma che non ponendosi fini - qualcuno ha detto che fine dell'arte è proprio non averne -agisce nella più completa libertà sia di chi produce che di chi fruisce l'opera. E' l'affermazione della reciproca e totale soggettività percettiva, ciò che fa scrivere a Ernst Hans Gombrich a proposito dell'opera d'arte: "Non sapremo mai che significato potesse avere per il suo creatore, perché anche ammettendo che ce ne abbia parlato può essere che in realtà fosse ignoto persino a lui. L'opera d'arte significa dunque ciò che significa per noi, non c'è altro criterio".

    In questi termini è possibile stabilire un rapporto biunivoco tra moralità e libertà ed è possibile che il termine 'espressionismo' acquisisca un significato definito ed inequivocabile.
    Ma, in architettura, vale lo stesso principio? Quando un'architettura è libera, e quindi morale? Quando esprime senza alcuna censura il soggettivo sentire dell'architetto? O quando rispetta le molteplici libertà individuali di quelli che con quell'architettura ci dovranno convivere per decenni senza averla scelta, subendola, tollerandola, magari trovandola sgradevole?
    Il discorso sulla libertà-moralità, in questo caso, si intreccia inevitabilmente con la responsabilità dell'architetto nei confronti non solo della propria committenza, ma dell'umanità intera, specie in questo periodo storico in cui la progettazione coinvolge più pesantemente che in passato la ricerca tecnico-scientifica, la gestione energetica, la politica del territorio, e quindi indirettamente la qualità della vita di tutti.


    L'architetto - scrive Leon Battista Alberti, sottolineando il valore sociale dell'architettura - "saprà con l'opera recare a fine tutte quelle cose, le quali si possono con grande dignità accomodare benissimo all'uso degli uomini": allora come oggi l'architettura è 'per gli uomini' e non di 'un uomo', è per questo che riflette il sistema sociale dei popoli, è per questo che Lewis Mumford parla dell'architettura come specchio della società e Giovanni Michelucci la vede come espressione corale di una creatività collettiva "di cui l'architetto è o deve essere interprete o, se grande architetto, anticipatore".
    La difficoltà, oggi, consiste proprio nel distinguere tra chi, nel nome di un espressionismo soggettivo ed autocelebrativo, conquista la notorietà della cronaca e chi, facendo tacere tentazioni esibizionistiche, sa ascoltare ed esprime lo spirito della storia.

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